la sfortuna di essere donna

Nel 2012 ogni due giorni è morta una donna per mano del suo uomo.

Femminicidio, lo chiamano.

Un fenomeno che forse c’è sempre stato ma di cui oggi si parla, forse troppo, tanto che i casi tristemente più noti diventano fonte di ispirazione per altri barbari delitti.

E  per la morte di donne che hanno vissuto poco solo per la (s)fortuna di essere donne.

Questi omicidi sembrano lontani anni luce da noi, sembra che non ci appartengano.

Menomale.

Altrimenti non riusciremmo a controllare la paura di morire e finiremmo per non vivere, nel tentativo di non metterci in pericolo da sole. (Il che equivarrebbe a colpevolizzare le donne che sono morte, quasi come se se la fossero cercata. Una cosa fuori dalla grazia di Dio nonostante ci sia stato qualcuno che, in nome di Dio, lo ha pensato e lo ha detto. Ma tale vergognosa idiozia non merita nemmeno la fatica che sto facendo  a battere le dita su questa tastiera e quindi non la commenterò oltre.)

Lontani anni luce dicevo, eppure così vicini. Perché quelle donne sono donne come lo sono io e come ne è pieno il mondo. E perché la tv ci racconta le loro storie così tanto e per così tanto tempo che ci sembra di averle conosciute.

Voyeurismo mediatico, lo chiamano.

E lo condannano. Perché sembra solo macabra curiosità travestita da pietismo.

Ebbene, a volte è vero. Ma non sempre.

Melania Rea è stata uccisa il 18 Aprile 2011. Io ero incinta di sei mesi, avevo da poco saputo di aspettare una femmina e in quel periodo non stavo lavorando. Come donna incinta sono stata molto molto pigra quindi di uscire a passeggiare non mi andava: passavo le giornate a casa, sul divano, a guardare la tv. E la tv parlava sempre di Melania, a qualunque ora e in qualunque salsa.

Era una madre. La madre di una bambina che adesso era rimasta senza madre. Come milioni di bambini al mondo ogni giorno, lo so, ma il loro caso visto il caso che vivevo io in quel preciso momento mi turbava di più.

Empatia, la chiamano.

Il 3 agosto, dopo due settimane di ospedale ed un taglio cesareo, sono ritornata a casa con mia figlia e una delle prima cose che ho chiesto a mio padre (la mia principale fonte di informazione nella vita) erano novità riguardo a Melania: presa da tutt’altro non avevo seguito la vicenda, che peraltro si ingarbugliava sempre di più e si “colorava” di tradimenti, segreti militari, trans, amanti e via così. (E’ una prerogativa, questa, del giornalismo: rendere un caso di cronaca una fiction a puntate. L’ho teorizzato nella mia tesi di laurea, l’ho chiamata la fiction non fiction. Era vero anni fa e lo è a maggior ragione adesso.)

Quella donna mi è tornata in mente spesso anche in questo 2012 appena finito. Nonostante i contorni delle storie suscitino più interesse dei protagonisti, specie se sulla loro natura non si hanno dubbi. Così era per Melania Rea. Lei, la sua identità, erano state quasi archiviate, in quanto sicure e dunque prive di interesse per il pubblico: una donna giovane, una donna bella, una mamma, una moglie innamorata, una moglie tradita, una figlia che soffriva la lontananza dalla famiglia, una vittima.

Una vittima.

E proprio per questo, perché sicuramente Melania era LA vittima, io la continuavo a pensare.

A distanza di molti mesi, di molti salotti televisivi e di molte udienze, il colpevole è stato accertato: anche Melania vittima di femminicidio.

Ma che l’assassino fosse il marito sembrava chiaro fin dall’inizio. Quello che aveva tenuto banco in quei salotti e nelle conversazioni delle persone alla fermata dell’autobus era: perché? Qual era il movente? E me lo chiedevo anche io, sinceramente.

Le ipotesi erano (e sono) tante: voleva lasciarlo; non voleva lasciarlo andare;  voleva portagli via la figlia; non voleva che lui sparisse dalla vita della figlia per andarsene con la sua amante; minacciava di svelare qualcosa che lo avrebbe messo nei casini; sapeva qualcosa che poteva metterlo nei casini e basta. E si potrebbe andare avanti ancora e ancora.

Ebbene, dopo tutto questo tempo e dopo i chili di bugie e macchinazioni di cui il colpevole si è macchiato, la sentenza è arrivata:  Melania ha scatenato l’ira del marito rifiutando un rapporto sessuale. “Secondo il giudice si è trattato di un delitto d’impeto che non avrebbe nulla a che vedere con le relazioni extraconiugali di Parolisi, maturato a causa della frustrazione vissuta dall’uomo nei confronti di Melania, “figura dominante” della coppia”.

Frustrazione, di lui.

Figura dominante, lei.

Ora, io non pretendo che l’aver visto “La vita in diretta” tutti i giorni in quel periodo mi dia più autorità del giudice. (Anche se.)

Ma davvero non ho capito niente di questa storia? Davvero la tv è stata brava a farmi credere che questa donna, dopo aver seguito il marito in un’altra città e ritrovatasi sola e solo con lui, abbia scoperto i tradimenti e se lo sia tenuto accanto per amore, abbia fatto il possibile per salvare il matrimonio, abbia sopportato di tutto per amore e solo per amore?

Devo aver capito male visto che la figura dominante era lei e il frustrato era lui. Che la vittima era “carnefice” del suo carnefice. La quale “attenuante” sicuramente non era nelle intenzioni di chi ha sentenziato la sentenza ma, vi dirò, a me dà fastidio. Perché, anche se Parolisi passerà in carcere il resto della sua vita e butteranno via la chiave, questo mi sembra: un’attenuante morale. Non un movente, ma un’ipotesi di giustificazione.

E penso che non era il caso di dire una cosa del genere, vera o falsa che fosse. Non serviva.

E poi mi sembra troppo facile associare la donna col sesso. E sullo sfondo il pover’uomo le cui scappatelle guarda caso non hanno nessuna colpa.

E mi infastidisce anche che il giudice che l’ha sentenziato sia una donna perché il commento a questa sentenza mi sembra misogino.

E vorrei tanto leggerne le motivazioni perché non mi convince neanche per sbaglio.

E più di tutto mi dispiace che questa non sia una fiction perché se fosse una fiction, scriverei a “Tv sorrisi e canzoni” e direi che questo finale non va bene. Che lo devono rigirare.

E invece, anche se per me è nata e l’ho seguita in tv, questa non è una fiction: è storia vera.

Era una donna vera con una figlia vera.

E’ vita vera.

E in questo caso non posso neanche cambiare canale.

(Indignazione, la chiamo.)

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