Parole, parole, parole…

Ho difficoltà qualche volta a pronunciarle, mai a scriverle. Forse perché il foglio mi permette di mettere un intermezzo tra me e chi le prenderà, mi fa sentire meno esposta e più coraggiosa.

Possono significare tante cose se le cerchi su un vocabolario ma quando le metti insieme a delle altre acquistano un significato specifico che difficilmente si può equivocare.

Puoi interpretare un tono, uno sguardo, un sorriso, un silenzio, ma non le parole: le parole sono fatti, esatti.

Le parole sono importanti, hanno un valore grande. E una forza notevole che non ti permette sempre di cancellarle, anche se qualche lo vorresti con tutto il cuore. Possono essere l’inizio di un mondo e la fine di un altro, servono ad insegnare, a comunicare, a creare storie, a capire, ad affermare, ad affermarsi.

Quella che noi chiamiamo rosa non perderebbe il suo profumo se avesse un altro nome”. Per carità, Shakespeare aveva ragione, ma noi quel profumo lo chiamiamo “profumo di rosa”, lo identifichiamo così. Per noi il suono “rosa” e quel profumo sono la stessa cosa.

E’ chiaro che millemila anni fa la scelta delle parole da associare ai concetti fu perlopiù casuale, sicuramente arbitraria: la rosa si sarebbe potuta chiamare spina e la spina si sarebbe potuta chiamare rosa. Noi oggi avremmo detto di aver ricevuto un mazzo di spine dal nostro amore e di esserci quasi affogati con una rosa di pesce e sarebbe stato perfettamente normale.

Ma come siano state assegnate le parole ai fatti non importa. Importa che esiste un vocabolario, che esiste un codice che sancisce il valore di queste parole. E noi dovremmo rispettarle di più, se abbiamo un minimo di rispetto per tutte le grandi cose che quei piccoli ammassi di lettere rappresentano.

Dobbiamo stare attenti, andarci cauti. Pensare bene prima di parlare.

Non dobbiamo dire “ti amo” se non ne siamo convinti perché quando lo diciamo a qualcuno, noi a quel qualcuno apriamo un mondo. Gli creiamo aspettative, speranze , consapevolezze, gli rafforziamo l’autostima, gli diamo tanto. E se l’abbiamo detto tanto per dire, l’abbiamo già ferito perché deluderemo le sue aspettative, renderemo vane le sue speranze, gli faremo dubitare di tutto e lo faremo sentire una nullità. Gli toglieremo tutto, se ci ama davvero, lui.

Non dobbiamo dire “volentieri” se non ci va di farlo. Non rendiamo un’offerta graziosa un fastidioso compito da portare a termine per dovere e che un giorno magari rinfacceremo tra le righe.

Non dovremmo mai dire “ti voglio bene come ad una sorella” quando poi spariamo dalla sua vita e passano mesi senza che ci distrugga l’esigenza di sentire la sua voce. Forse non ce l’abbiamo una sorella. Perché se ce l’avessimo sapremmo che una sorella, anche quando ti fa incazzare e ti delude e preferiresti non fosse mai nata, resta tua sorella. E il bisogno di sapere dov’è, che fa, se sta bene, se è felice, se ha bisogno di te, non ti lascia mai.

Non diciamo “per sempre” quando non siamo disposti ad andare oltre noi stessi. Se il nostro orgoglio, la nostra strafottenza e la nostra superficialità non ci fanno vedere oltre il nostro naso, che speranza abbiamo di tendere all’infinito?

Non diciamo “ciao” quando intendiamo “addio”. Sforziamoci di essere più chiari, diamo agli altri il tempo e la possibilità di capire che quella è l’ultima volta che ci saremo.

Usiamole meglio le parole, usiamole per quelle che sono, senza paura di pronunciarle.

Perché se non le usiamo, se non ci facciamo aiutare subito da loro, ci resteranno dentro e perderanno ogni valore.

L’Antisposa – Mangiamoci su

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La mia idea di ricevimento ideale prevede un grande e ricco buffet da consumare in piedi; piatti freddi e poco unti da poter mangiare passeggiando per i viali di un parco;  ingombranti e limitanti tavoli solo per le persone più anziane che hanno bisogno di stare sedute; un rinfresco veloce che non duri più di tre ore.

Non sono arrivata a questa conclusione per caso. Ci sono giunta innanzitutto dopo aver scartato la meravigliosa abitudine americana di suddividere il matrimonio in quattro giorni con tanto di cene tra parenti, cene con amici, prove d’abito, merende nella villa in campagna dei miei genitori, statue di ghiaccio in giardino e duecento camere in casa mia per ospitare tutti gli ospiti che vengono da lontano (per capire meglio di cose parlo, guardate il film “Il matrimonio del mio migliore amico”).

Ho dovuto scartare questa ipotesi, pur essendone molto affascinata in barba al mio amore per l’essenzialismo, perché purtroppo non sono americana… non ho una villa in campagna… la casa dei miei genitori ha solo due camere da letto e mezza… e non abbiamo un giardino.

Ridimensionandomi un pochino, potevo optare per una via di mezzo, ovvero la classica festa di nozze, quella che dura un solo giorno sì, ma dall’alba a notte inoltrata, con trecento portate e gli invitati che quasi scoppiano a fine festa maledicendoti per avergli rovinato lo stomaco e costretto a digiunare per i sei mesi a venire.

Questo genere di matrimoni però non mi piace granché. Trovo sia un grande spreco perché, se è vero che alcuni mangiano fino a scoppiare, molti altri non toccano praticamente cibo (ha ragione mio padre quando dice che il matrimonio dovrebbe essere festeggiato in almeno due giorni, così da spalmare meglio il pranzo. Ma torniamo nuovamente al modello americano, e non possiamo permettercelo, arrendiamoci!)

Nel vedere tutto quel ben di Dio che viene buttato via poi, tu purtroppo non pensi ai milioni di persone che quotidianamente muoiono di fame, che almeno sarebbe un pensiero utile e giusto, ma pensi alle centinaia di migliaia di euro che tu hai buttato via per quel pranzo. E per colpa dei quali rischi di morire di fame tu, in futuro.

Così, mi è venuta l’idea del buffet semplice ed essenziale, pratico e veloce ma non per questo poco coinvolgente o poco di classe, anzi: sono stata al matrimonio di un mio caro collega ed amico, matrimonio organizzato in poche settimane e senza perderci il sonno, ed è stata una delle più belle feste a cui abbia mai preso parte. E c’era il buffet.

W il buffet!

Il mio proposito, così nobile ed intelligente per me, si è sgretolato contro tutti coloro con cui ne ho parlato…

Il mio sposo in primis, che adora i matrimoni e si commuove all’idea di andarci non perché ha un animo sensibile, ma perché gli piace abboffarsi di cotante prelibatezza senza ritegno.

In secondo luogo mia madre che, dopo essere stata al matrimonio della figlia di una sua amica ed aver patito il freddo e la stanchezza in un freddo giardino all’aperto senza sedie, ed aver patito la fame perché il buffet era così striminzito che la roba era finita prima ancora che lei trovasse il coraggio per andare al tavolo a riempirsi un piatto, maledice l’universo dei buffet.

Mia nonna, che allo stesso matrimonio era seduta, almeno lei, ma non è stata a suo agio comunque: secondo lei, almeno nel giorno delle nozze, bisogna abbondare e dare agli ospiti molto più di quello che sono capaci di accogliere (credo che questa cosa derivi dal fatto che durante la guerra ha conosciuto la fame vera ed ho provato a spiegarle che oggi è tutto diverso, ma non ha voluto sentire ragioni).

Così, dopo lunghe battaglie, abbiamo optato per una via di mezzo alla via di mezzo, ovvero un ricco buffet da consumare in piedi e soltanto i primi piatti (caldi) serviti a tavola.

Compilare un menù di nozze non è una cosa semplicissima, devi tener conto di un sacco di fattori: periodo in cui si svolge il ricevimento (se è inverno ben vengano piatti molto caldi, se invece è estate evitare risotti e zuppe di ogni genere che fanno salire la temperatura più di quanto sia accettabile); allergie degli invitati, almeno di quelli che contano (mio suocero per esempio è allergico al pesce e, per evitare complicazioni, ne abbiamo limitato la presenza al minimo indispensabile. Il che tutto sommato è stato anche un bene per le tasche); consigli delle invitate che contano (mia suocera ci ha proibito gli spaghetti, perché macchiano: nessuno vuole un cerchietto di sugo sulla camicia nella foto ricordo); rischio avvelenamento (in molti amano i frutti di mare crudi ma molto spesso i pranzi in cui vengono offerti finiscono con qualcuno all’ospedale, ed anche questo va evitato); paura dell’effetto “paccottiglia” (mio padre ha vietato la presenza tra gli antipasti di pizzette e rustici, perché li considera “roba da poco”); non esagerare con le novità (al matrimonio di mia sorella c’era una fantastica crema di mirtilli servita con il polpo alla brace, ma tutti se la sono conservata per il dessert).

Quanti problemi.

Che poi io probabilmente non assaggerò nulla perché sarò troppo presa da altro, quel giorno.

Ma il mio fidanzato ed il suo stomaco bionico, invece, sicuramente sì.

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Fai un figlio e dici “addio”

La vita sociale diventa un lontano ricordo, o un miraggio, quando hai un figlio. Ci sono (inutili) individui che ti dicono che la fai tragica, che puoi fare la vita di prima anche se ti sei riprodotto, che non bisogna rinunciare a nulla.

Cazzate.

Quando fai un figlio cambia tutto, anche la soddisfazione dei bisogni primari, figuriamoci se non cambia un “lusso” come la mondanità.

Provateci ad andare in un pub con la musica a palla, ma anche in un tranquillo ristorante per famiglie, una pizzeria magari, insieme al vostro pargolo: passerete la serata a corrergli dietro per tutto il locale e poi il papà vi darà il cambio per farvi mangiare un boccone, che consumerete sole e abbandonate al vostro tavolo, ingozzandovi per finire il più presto possibile e dare man forte a lui che non sa come distogliere il frutto del vostro amore dalla borsa di quella signora bionda e incazzata lì in fondo. E provate a fidarvi degli amici che, ignorando totalmente come funzionano le cose perché non hanno ancora figli, vi dicono “e che sarà mai, vi aiutiamo noi”: non accadrà o perché vostro figlio con loro non ci vorrà stare e reclamerà solo voi, o perché non saranno in grado di placarlo o perché si romperanno le palle troppo in fretta. Talvolta addirittura prima di iniziare.

(Se volete un consiglio spassionato, la cosa migliore è il take away da consumare a casa o una bella pizza a domicilio: nel suo regno il baby saprà come impegnare il tempo e voi non rischierete di strozzarvi per l’ansia e la fretta)

Ogni tanto comunque bisogna andar fuori per forza, cambiare aria, perché si usa e perché  così il mondo (o tu per primo) tira un sospiro di sollievo: non sei ancora una scarpa vecchia. E allora l’unica scelta che ti resta è affidare la prole a qualcuno e ritagliarti una serata di “libertà”.

E’ toccato anche a me: ho mollato la bimba ai felicissimi nonni e sono andata al cinema con mio marito e poi a cena fuori, come non capitava da un anno e mezzo. Io, che in tempi non sospetti ero una gran conoscitrice di tutti i locali della città (che, nonostante la mia memoria perda colpi giorno dopo giorno, ancora ricordo) mi sono sentita strana all’idea di uscire come facevo prima. Non ci ero più abituata. Poi però è stato tutto molto naturale: sorprendente il poter parlare col mio uomo senza che qualcuno rubasse la sua attenzione, rilassante poter camminare mano nella mano per strada di notte e miracoloso vedere un film intero senza addormentarmi sul divano dopo 10 minuti dall’inizio.

Esaltante davvero. Ma non da subito e non fino alla fine. Nel mezzo sì.

All’inizio, non essendo abituata a lasciare mia figlia, mi sono sentita male. Non in colpa, ma male. E ho avuta la conferma di un mio inquietante sospetto, ovvero che i figli non ti lasciano in pace neanche se non te li porti dietro: loro ci sono anche quando non ci sono. Non ti danno tregua. Mai: sono in ogni tuo “questo gli piacerebbe” e “chissà se sta dormendo”.

Alla fine invece mi sono sentita vittima della sindrome di Stoccolma, quella che vuole i prigionieri dipendenti dai propri carcerieri: in pratica senza piccola peste niente è bello come con. E a dispetto di quello che volevano farmi credere mi stava mancando, a dispetto di quello che dicevano stavo perdendo, ho capito che non me ne frega più niente, che in definitiva sono tutte stronzate.

Va detto che io sono fortunata perché di andar fuori il sabato sera non mi è mai interessato granché, anche se lo facevo, e non sono mai stata tipo da discoteche o varie. “Pantofolaia”, ecco quello che sono sempre stata. Ma immagino che quelli che invece amano certe cose si sentano schiacciare dal peso del cambiamento, anche se per pudore non lo dicono.

Così lo dico io. E non è che voglia spingere i giovani a non fare più figli. E non è che voglia demonizzare l’essere genitori, che considero la più grande, esaltante e felice esperienza della mia vita. Dico solo che mi sarebbe piaciuto che qualcuno mi preparasse a quello che mi aspettava, invece di dipingermi un idillio che non può concretizzarsi senza prima una grossa presa di coscienza, ovvero che quando fai un figlio cambia tutto perché cambi tu.

Cambia il tuo cervello. E per quanti sforzi tu possa fare, per quanto tu ti possa agghindare e sforzare di essere come prima, non sarai mai più come prima. Perché il tuo cuore non lo sarà mai più. E non è un male, non è un bene, non è un rimpianto e nemmeno un vanto, è solo una constatazione. Necessaria per vivere con serenità il futuro.

Questo non significa che non si debba prendersi del tempo per se stessi, anzi. Nonostante mi sia resa conto che la vita di prima non mi manca quanto io sono mancata a mia figlia e lei è mancata a me mentre non eravamo insieme, io lo farò. Perché farà bene a lei e soprattutto farà bene a me imparare a cavarmela anche senza la mia morbidissima coperta di Linus corredata di dieci denti (di cui quattro mole) e riccioli d’oro.

Però ho detto addio alla spensieratezza di un tempo, alla “libertà” (psicologica più che fisica) che non ho più. Il che è stato catartico perché, come mi hanno appena detto, “tutta la nostra vita è un atto di separazione, dobbiamo solo trovare il modo di darci il giusto addio”*.

Credo di non aver fatto una scoperta eclatante. E’ qualcosa che tutti sanno ma che nessuno dice o vuole sentirsi dire. Perché sembra quasi che ad ammetterlo tu voglia meno bene a tuo figlio o sia un genitore peggiore di quelli che tacciono la verità. Io non sono d’accordo: ho imparato che la sincerità è la base per avere buoni rapporti. Soprattutto con se stessi.

*(La citazione è presa dal film che ho visto, “Vita di Pi”, che mi è stato consigliato da un cinefilo doc e che ho trovato davvero meraviglioso. Ve lo consiglio io che non sono affatto una cinefila doc ma che so riconoscere un’emozione grande)

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Prendete nota

Non ho fatto in tempo ad archiviare albero, presepe e compagnia cantante che si è concretizzata questa cosa del libro, alla quale mi sono dedicata anima e corpo finendo con rimandare tutto il resto.

Gravissimo. Il resto non può essere rimandato. C’è qualcosa di molto più urgente della mia carriera, del mio futuro, di Gesù bambino e della sacra famiglia. Cos’è? Allora non mi conoscete ancora bene perché c’è una sola cosa che con l’avvicinarsi di Febbraio può prendere il sopravvento nella mia vita.

(Perdonami, mio amato, per il ritardo, ma ora sono qui. E ci resterò per circa un mese quindi, se leggete questo blog avrete capito che sono ossessiva e dunque se lo odiate sarà meglio che vi armiate di pazienza oppure che torniate tra un mesetto circa. Ma non garantisco che per allora avrò finito i miei resoconti. Vero è che se non inizio, non finirò mai quindi via! Diamoci dentro).

Il 12 Febbraio inizia la 63° edizione del Festivàl della canzone italiana, quest’anno presentata da Fabio Fazio come già accaduto nel 1999 e nel 2000. Lui, devo dire, mi piace. Mi piaceva allora e mi piace ancora ora che è ritornato in RAI dopo essersene andato, ora che sembra essere diventato un personaggio politico perché ospita troppo spesso Saviano e la Littizzetto a casa sua. Mi piace anche se sembra sempre troppo timido, e so che in realtà non può esserlo, perché manda sempre avanti gli altri e a volte sembra dissociarsi ma in realtà non lo fa. Insomma, la classica persona che lancia la pietra e nasconde la mano. Ma garbata, perbene.

Un tipo particolare e forse proprio per questo, interessante. Senza contare che i suoi due festival sono stati davvero carini quindi perché non dargli fiducia?

Per la Littizzetto invece sono un po’ preoccupata. Da una parte temo che faccia i suoi soliti show estremi che metteranno in imbarazzo l’intero Ariston e anche me. Dall’altro temo che non li faccia per niente diventando più asettica ed impersonale del dicono comico Panariello quando condusse lui quell’orrenda edizione del 2006. Ci vorrebbe una via di mezzo e vedremo come andrà. Ma, vedete, il fatto che mi stia ponendo il problema indica che la questione crea curiosità e dunque già vince.

Per il momento non si parla di nessuna bonona da affiancare ai due. Possibile? Le bonone in realtà sono molto più che inutili ma temo che in un tale frangente, e soprattutto per colpa di un’abitudine lunga trent’anni, si potrebbe finire per sentirne la mancanza. Voglio dire, con tutto il rispetto per la Littizzetto, ma gli abiti di chi dovremmo ammirare?

Ci sono poi i cantanti. Quest’anno ogni cantante partecipa con due canzoni, una delle quali verrà eliminata e l’altra gareggerà per il podio. Un fatto nuovo, ma nemmeno tanto se consideriamo che anni ed anni fa il 2×1 funzionava al rovescio: la stessa canzone cantata da due artisti diversi. Bello comunque, nuovo, il che potrebbe movimentare il tutto.

I giornalisti che hanno già ascoltato i brani dicono che sono mediamente belli. I peggiori sembrerebbero essere quelli dei Modà, che comunque sono uno dei gruppi più amati in Italia quindi di sicuro le loro canzoni le sentirermo abbondantemente.

Questo è quanto. Ora veniamo alle mie raccomandazioni, o meglio speranze.

Mi auguro che le serate non durino oltre la mezzanotte, perché ho una bimba piccola che poi mi si sveglia la mattina presto e non posso recuperare sonno nemmeno il pomeriggio perché c’è la trasferta de “La vita in diretta” e sarò presissima.

Mi auguro che gli ospiti siano pochi e non troppo invadenti ma Fazio mi ha già rassicurato.

Sulla Littizzetto ho già detto.

Mi auguro che Maria Nazionale, della cui partecipazione mio marito è felicissimo, non cacci fuori l’anima trash che è in lei e il cui demone io non riesco a scacciar via.

Mi auguro che Albano la smetta di recriminare perché non è stato invitato a partecipare. Per carità, io capisco l’affetto per il Festival ma l’idea di ritrovarmelo in tutte le trasmissioni a fare il muro del pianto come fece Marcella Bella l’anno scorso mi fa rabbrividire.

Mi auguro che i giovani non mi facciano cambiare canale.

Mi auguro che durante l’evento il tempo passi lento lento, perché poi dovrò aspettare un anno per incontrarlo di nuovo.

E, infine, mi auguro che Pippo mio stia bene e non soffra troppo per la mancanza.

Avete presto nota?