HO FATTO “GIUST’IN TEMPO” A NON ALIENARMI PURE IO

Il povero Giustino con i suoi amici immaginari.

Il povero Giustino con i suoi amici immaginari.

Un tempo i cartoni animati o raccontavano storie semplici, spesso strappalacrime (leggi polpettoni, tipo i drammi di quella povera disgraziata di Milly un giorno dopo l’altro), o storie di pura fantasia, con creature dichiaratamente magiche e situazioni inverosimili che facevano ridere i più piccoli (ah… Emy. O Mei... Ti penso ogni volta che metto uno strano braccialetto!). Poi c’è stato il periodo “guerriero”, quello di Sailor Moon e di Dragon Ball, di personaggi combattivi che portavano avanti una missione e che risultavano lontani anni luce da chi le loro storie le guardava in tv. E che personalmente me la facevano spegnere.

Oggi invece i cartoni animati hanno spesso l’intento di insegnare qualcosa ai bambini, di “educarli”, istruirli, e qualche volta ce la fanno. Che sia un bene o un male, è un altro discorso, basti pensare a quanti bambini hanno imparato a rotolarsi nel fango solo per somigliare a Peppa Pig, mia figlia la grande in primis. (Che è anche solita buttarsi per terra a ridere sguaiatamente per qualunque cosa, ma questo è un altro discorso, e un altra preoccupazione per la vita).

Comunque, i canali “prescolari” come Rai Yoyo e Cartoonito mostrano fior fior di puntate in cui i mini telespettatori vengono invitati ad imitare i personaggi sullo schermo, ripetendone le parole in inglese o riproducendone le mosse in una ginnastica casalinga che può dirsi quasi interattività. Come succede con Dora L’esploratrice, che qui amiamo e che viene affettuosamente chiamata in famiglia DoaDoaDoaDoaDoa perchè la mia “lei” la chiama così. Come suona la sigla.

Ma cosa succede quando il cartone sponsorizza l’alienazione? Quando dovrebbe in teoria stimolare la curiosità e invece propone un modello di comportamento tutt’altro che sano? La risposta sarebbe semplice: si spegne la tv. Ma non scherziamo, qui da me non si può, per principio. E allora ci penso, e me la prendo a cuore. Com’è successo con il cartone di Disney Junior Giust’In tempo – in onda su Cartoonito di continuo – che racconta le fantastiche avventure del piccolo Giustino: lui viaggia per il mondo, va in Cina, in India, impara a guidare la canoa, si lancia nello spazio e salva creature indifese, ha una vita pienissima e tutta da sognare. In teoria. Perchè nella realtà il povero creaturo non ha uno straccio d’amico. E’ solo come un cane, anzi peggio.

Giustino passa le sue giornate con una piccola creatura volante che si chiama Ciuffetto e insieme a lui vive avventure di pura fantasia che lo portano ovunque lui desideri, ed in ogni tappa incontra l’altra sua amica immaginaria, Olivia, una bambina che di volta in volta lo trasporta in un posto diverso del mondo e a contatto con una cultura diversa. Il che, certo, è affascinante. Ma perchè Giustino non ha amici in carne e ossa?

L’immagine che abbiamo del piccolo sventurato è quella di un bambino che non ha vita sociale, che non si confida con i genitori, che vive una dimensione parallela esaltante per sfuggire alla noia che lo circonda. Il che è preoccupante. E fa anche un po’ pena. Insomma, che razza di insegnamento dovrebbe trarne un bambino? Che fa bene a fuggire dalla realtà insipida, a rifiutarla, ad estraniarsi, a non tentare di inserirsi? Io non capisco proprio.

Il compromesso tra fantasia e realtà poi può esserci, e lo mostra L’armadio di Chloè (adoro!), in cui la piccola protagonista vive avventure immaginarie con i suoi amici (veri) ma poi, alla fine di ogni puntata, racconta tutto ai genitori e insieme a loro va al parco, a fare una passeggiata, a giocare, a fare cioè attività reali e condivise e non presenti solo nella sua testa. Cose sane, che insegnano qualcosa, che danno un buon messaggio, concrete… per la miseria!

La mia sensazione è che si sia persa una buona occasione per mostrare il mondo ai più piccoli in maniera intelligente: che male ci sarebbe stato a dare a Giustino un fratello, o un vicino di casa con cui tirare qualche volta due calci ad un pallone mentre correvano dalle Piramidi alla Tour Eiffel? Per dirla tutta: che ci voleva a non farne uno sfigato?

PS: Essere telespettatrice compulsiva mi aveva già rovinata. Diventare pure madre e farmi le pippe mentali del caso mi ha infine distrutta.

I BAMBINI CHE SI BAGNANO I PIEDI DEVONO PRENDERE LA MEDICINA

Si fa presto a dire: se la bambina è influenzata, falle l’aerosol. A parte che ogni giorno s’inventano un pezzo nuovo e la mia super moderna macchinetta costata quanto i miei stivali ultra fashion è sempre obsoleta, a parte questo. Mica è facile preparare tutti i medicinali, tentare di convincere la pupa a collaborare, offrirle cioccolatini come ricompensa e poi darglieli prima perché sa come fregarti, prenderla in braccio, accettare che provi a fare da sola perché il papà è seguace dell’autonomia di cui è seguace Tata Lucia (maledettissima me che alla sua prima festa del papà gli ho regalato il libro di questa qui, che Mary Poppins inorridirebbe al sol cospetto, ignorandone il potenziale malefico), attivare tutto, vedere che lei capovolge la boccetta e fa cadere tutto inzuppando il tutto, e ricominciare daccapo. In loop.
Si fa presto a dire: dalle lo sciroppo. Sì, certo. In tre anni io ho consumato 3 bottiglie circa di cui 7 ml sono stati ingeriti ed il resto appiccicato sui capelli della pupa, sui miei, sui vestiti della pupa, sui miei, sulle lenzuola (le mie), per terra. Un incubo.
Che poi quando si ammalano spendi in un nano secondo, e senza battere ciglio, il quadruplo del prezzo di quel jeans di cui hai proprio proprio un gran bisogno. Per carità, la salute – dei bimbi poi! – prima di tutto. Ma se il 90% di ciò che compriamo viene defenestrato per tentativi, un po’ mi rode: io i jeans me li metterei!

IL PROBLEMA DEL “VAFFANC**O”

Quando si hanno intorno bimbi piccoli bisognerebbe stare attenti a non dire mai parolacce. Ma non per la loro buona educazione, bensì per evitarti figure di niente, come quella che temevo di fare io quando, durante un grande pranzo di famiglia, ero certa mia figlia la grande mandasse affanc**o la prozia anziana di mio marito perché non le dava altre duecento noccioline.
Ebbene sì, ogni tanto lo dico. Anzi, glielo dicevo. E ce la mandavo. Quando mi rispondeva a tono, quando mi faceva spazientire, quando mi sfidava. Non è che glielo urlavo o scandivo, lo dicevo tra i denti quando uscivo dalla stanza in cui era lei. Ma lei ha il radar. Sente e incamera. Tutto. Anche il fatto che la medicina va sciolta nell’aranciata, così per precauzione non la beve più.
All’inizio mi rispondeva elegantemente fanc**o tu. È stata redarguita, io ho smesso di dirlo o almeno mi sforzo mordendomi la lingua tutte le volte che me lo ispira (e quindi c’ho una lingua tanta). Ma lei non ha dimenticato. Figuriamoci: a poco più di due anni e mezzo ha imparato una poesia di Pasqua meravigliosa, ha una memoria da Guinness.
Così quando qualcosa non le va giu o la fa arrabbiare lei ormai prima urla non è cciusto!, poi fa la mossa del Super Sayan e alla fine sbotta con un continuo e ripetuto “hai visto? Non ho detto vaffanc**o!!”.

Mi sta bene.

Il pediatra è morto

Succede che mia figlia in un ridente venerdì si prenda un bel febbrone, che parte lento e dopo poco arriva già a 38. Via di Tachipirina sciroppo e reclusione (menomale che quella mattina l’avevo portata al parco, almeno ha fatto scorta di ossigeno).

Succede che la febbre continui a salire con un picco di 39.9 sabato sera nonostante la Tachipirina, cosa che mi porta a crepare di paura, a tentare inutilmente di contattare il suo pediatra che ha il cell staccato, e alla fine a darle anche il Nurofen su consiglio di un amico pediatra.

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Succede che il giorno dopo le cose sembrino andare meglio ma ecco che il pomeriggio la febbre torna a salire e la sera di domenica siamo di nuovo a 38.9 di temperatura. Così il mattino dopo, appena sveglia (sveglia si fa per dire visto che in 3 giorni ho dormito 6 ore) chiamo il signor pediatra sul cellulare alle ore 8 del mattino, come previsto dal suo “regolamento”. Mi risponde con la sua solita aria scoglionata e infastidita ma io me ne frego e gli racconto tutto il fatto. Dopo un lunghissimo silenzio mi “concede” di portargli la bimba allo studio quella stessa mattina. No dottore, forse non ci siamo capiti: ieri sera mia figlia aveva 38.9 e oggi piove e c’è vento, io non voglio farla uscire. Non potrebbe venire lei? Assolutamente no, mi risponde. E poi, aggiunge, non facciamola tragica: 38.9 mica è temperatura alta. Ah, no? No. Alquanto indignata gli dico che chiamerò in studio per prendere l’appuntamento ma che se la febbre dovesse risalire la bambina non la farò uscire di casa. Mi congeda con un freddo arrivederci.

Succede che io chiami in studio e parli con sua moglie che già mi sta sulle palle da sempre perché non fa altro che urlare in sala d’attesa e dire che i suoi figli sono i più belli e intelligenti del mondo, cosa che in uno studio pediatrico io non direi per un fatto di delicatezza: magari c’è uno che ha un bimbo ritardato o brutto e lo stai offendendo, deficiente! La moglie si mette subito sulla difensiva e dice che il marito a casa non può proprio venire, devo andare io da loro. Al che sto quasi per capitolare ma mi ricordo che quel giorno non ho la macchina perché mio marito se l’è portata al lavoro e che quindi comunque non potrò andare. Lei, molto molto comprensiva mi dice che non è un suo problema e che devo trovare qualcuno che mi porti. Al che rinuncio e decido che chiamerò il medico privato, ma a lei dico che ci aggiorneremo poi.

Succede che la febbre, puntuale come fa da due giorni, alle 11 salga di nuovo quasi a 38. Al che mio marito mi tormenta consiglia di richiamare il pediatra della mutua prima di chiamare quello privato ed io lo faccio. La moglie, compassionevole, mi dice che mi avrebbe chiamata lei a breve per sapere come stava la bambina e quando le dico che ha di nuovo la febbre mi inserisce immediatamente nella lista delle visite domiciliari senza fare più storie.

Succede che alle ore 20:15 arrivi il pediatra e dopo un frugale buonasera visiti mia figlia in silenzio senza degnarmi di uno sguardo. Poi finalmente si accorge che ci sono anche io e mi chiede di raccontagli com’è andata. Inizio a fare il resoconto delle febbri e lui mi interrompe con un tutto questo non conta: vuole sapere i sintomi ma sintomi, a parte la febbre, non ce ne sono stati. Al che si mette a parlare con la bimba e le dice che l’importante è che non ha febbre dalla sera prima. No dottore, stamattina l’aveva, ribadisco io. Mi aveva detto di no al telefono, dice lui. Poi le è salita, chiarisco io. E qui lui dice quello che non avrebbe mai dovuto dire ad una madre preoccupata, stanca, normalmente equilibrata e che cerca di avere a che fare con i medici il meno possibile nella vita. Dice con un sorrisetto guarda caso!  Trattenendo la mia furia mortale, gli dico che mia figlia aveva davvero la febbre la mattina, che non m’inventerei mai una malattia, che non sono quel tipo di persona. Ma lui non mi crede e dice che io volevo la domiciliare solo perché non avevo la macchina, che io non sono nessuno per decidere se è il caso o meno di visitare a casa, che quella è scelta sua e che io voglio averlo al mio servizio (parole che la moglie sostiene io abbia proferito).

Succede che tutto l’odio che sento per quest’uomo esploda dentro di me e mi faccia perdere le staffe. E gli dico che il suo atteggiamento scostumato di chi si crede Dio non mi è mai piaciuto e me lo sono tenuto come pediatra solo perché lo ritenevo bravo, al che mi dice senza problemi che esistono tanti pediatri al mondo, mica è l’unico. Gli dico che può giurarci, che con lui non voglio più avere nulla a che fare né tantomeno con quella mitomane della moglie,  che sarà anche preparato scientificamente ma che deve imparare a trattare con la gente e a rendersi conto che lui potrà anche essere abituato a vedere febbri a 42 ma che noi comuni mortali non lo siamo e un 39.9 ci spaventa.

Succede che nel frattempo arrivi mio marito e il medico cambi atteggiamento, cercando di limitare i danni. Io mi limito di dire a mio marito che la bimba non ha nulla e che il medico ritiene mi sia inventata la febbre della mattina pur di poterlo avere a casa (ma Dio lo sa quanto avrei voluto evitare di rivedere quella faccia di cazzo) ed esco di scena con un prosegui tu perché con questa persona io non voglio più avere niente a che fare. Mio marito, con il suo aplomb che un po’ invidio e un po’ mi fa girare le palle a elica, prende le mie parti ma perlopiù si interessa della bambina e chiede cose mediche. Il pediatra a lui dà spiegazioni, consigli, suggerimenti e poi propone improvvisamente delle analisi che mai e poi mai avrebbe prescritto visto che non ha riscontrato nulla dalla visita ma che prescrive col solo scopo di metterci la pulce nell’orecchio e costringerci per coscienza a fare una cosa che non riteniamo necessaria così come, secondo lui, ho fatto io nel farlo venire a casa inutilmente. Ed è per questo che lui è stato inqualificabile con me, in definitiva: perché l’ho sfidato e ho vinto, mentre è abituato a costringere le madri a portare i figli in ambulatorio anche con 42 di febbre tanto che l’ultima volta che siamo state lì per il bilancio c’era una zona off limits tipo lazzaretto in cui c’erano i piccoli contagiosi (zona in cui alla fine ci hanno spostati = geni!)

Succede che se ne vada salutandomi dall’arco della porta e io gli risponda a monosillabi dall’altra stanza, maledicendo i miei genitori per avermi fatta troppo educata e maledicendo il fatto che queste cose succedono sempre a casa mia, dove paradossalmente non posso tirare fuori la vaiassa napoletana che è da qualche parte dentro di me.

Succede che mi ci vogliano due ore per sbollire l’ira funesta senza versare neanche una lacrima di rabbia.

Succede che nel referto il medico abbia scritto che la diagnosi è “febbre da 48 ore”: ha messo per iscritto che mia figlia non aveva febbre da domenica sera e quindi io ho mentito, c’è poco da fare.

Succede che io abbia detto a mio marito che se proprio vuole tenersi questo luminare come medico dovrà impegnarsi ad andare sempre lui alle visite e ai bilanci, nonché a telefonargli se serva, perché io non voglio più averci a che fare. Ribadisco.

Succede che dovremo dunque cambiare pediatra e devo fare qualche indagine prima: non voglio  uno che venga a casa, me ne sbatto (e del resto in quasi due anni questa è stata la prima volta che l’ho contattato), ne voglio solo uno che sia comprensivo e gentile e che mi faccia sentire che ho qualcuno che mi aiuta e non un nemico che mi giudica perché questo lo fa sentire migliore. Anzi, il migliore.

Succede che mi venga da pensare per la prima volta in vita mia che sia meglio pagarlo un medico. Ma neanche questo garantirebbe gentilezza.

Succede che io sia molto offesa, inviperita e che vorrei chiamare allo studio per prendere a parolacce la moglie. Ma mi ricordo della volta in cui a seguito del suo show in ambulatorio, quando ha detto che la figlia era talmente intelligente da dare fastidio in classe perché non permetteva lo svolgimento della lezione correttamente in quanto annoiata, le ho detto che forse alla figlia avrebbero dato per questo una maestra di sostegno. Il che la zittì, con mia goduria.

Succede che vorrei spaccare qualcosa e urlare fino a ri-perdere la voce.

Succede che non è giusto che io, una madre che odia i medici e che tende a non portarci mai la bimba sia passata per una affetta da sindrome di Munchausen mentre mio marito, che mi tormenta giorno e notte per farmi chiamare, minacciare e tormentare i medici sia passato per quello ragionevole con cui si può dialogare.

Succede che purtroppo il pediatra sia morto solo a livello figurato.

Ma soprattutto succede che mia figlia stia bene ed è solo su questo che sto tentando di concentrarmi.

Anche questo è essere mamma. E donna.

PS: Fatemi l’applauso per quante poche parolacce ho usato.